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da QCodeMag (06/06/2016) 
L'UNDICESIMA ECLOGA di Fabio L. Mauti
Una parola nell’Egloga proibita di Alessandro Macchia risalta sulle altre: è la grazia. In un mondo rumoroso, uso alla narcisistica amplificazione dell’immagine e della voce, la grazia si affaccia come un’entità aliena e ravviva modi antichi e trascurati di fare cultura. Macchia è uno dei più autorevoli musicologi d’oggi e, se non fosse che i professionisti dell’istruzione vivono da sempre in un ingiusto anonimato, meriterebbe d’esser salutato come uno dei più validi didatti della scuola italiana. Ma è proprio dal riserbo del difficile e mai adeguatamente ricompensato lavoro educativo che Macchia ha deciso di trarre virtù e di farsi conoscere da ultimo anche come un raffinato drammaturgo. L’Egloga proibita è teatro da camera povero e poverissimo, che si beffa, con una signorile alzata di spalle, dei proclami della politica sui finanziamenti alle scuole: come dire che loro, gli alunni della Secondaria di Carpignano Salentino, giocano a pallone anche se non si possono permettere il campetto. Nessuna spesa per costumi e scenografie, niente altoparlanti, luci o effetti speciali: all’Egloga proibita bastano le pareti delle aule scolastiche e qualche seggiola di legno per gli spettatori. Ed ecco che l’intero edificio della scuola, solitamente visto dai ragazzi come un luogo angusto, è trasformato in un suggestivo palcoscenico. E noi, schiacciati dalla sorpresa, vorremmo essere critici teatrali e ad un tempo esperti pedagogisti per rendere piena giustizia alla grazia dell’Egloga di questo Signore della penna e dell’immaginazione.
Lo spettacolo, intendiamo, va goduto sotto innumerevoli luci. Immaginate cinque microdrammi autosufficienti di dieci minuti ciascuno in altrettante aule, replicati cinque volte di seguito, perfettamente sincronizzati: è il criterio quotidianamente vissuto della simultaneità degli eventi. Immaginate un gruppo di centocinquanta spettatori che si spostano agevolmente da un’aula all’altra per poter assistere a tutti e cinque i quadri, accolti, nel loro percorso per i corridoi in penombra della scuola, da delicati intermezzi: la grazia è anche il gioco sopraffino, e a tratti borgesiano, offerto allo stesso pubblico, invitato a ricostruire incessantemente i sottili legami fra un quadro e l’altro. Immaginate infine un corpo di oltre settanta attori dilettanti fra i dodici e i tredici anni che, date le modalità di svolgimento della rappresentazione, sono invitati ad autogestirsi, il loro insegnante non avendo ancora doni di ubiquità: William Golding sarebbe trasalito e non avrebbe creduto ai propri occhi. Immaginate tutto questo e avrete ancora soltanto una pallida idea della virtuosistica proposta di Macchia e dell'alto valore didattico in essa contenuto. La grazia non è circoscritta alla forma attraverso cui il dramma si evolve: è anche lo strumento designato e additato per contrastare l’arrogante deturpazione della natura in atto. Bersaglio obbligato sono le multinazionali prepotenti e la politica collusa. Macchia recupera l’antico soggetto della perdita dell’Eden e il disusato genere della pastorale per trasmettere un messaggio ecologista (termine che in ogni caso, sembra, l’autore non ami) alquanto elaborato. Ne risulta un’arcadia assai peculiare: talvolta artificiale, fatta di moine e infingimenti, come nel quadro del “Giardino”, dove un botanico e un giardiniere trastullano le loro vanità. Più spesso vengono alla superficie le pieghe amare del genere bucolico: il tema virgiliano dell’espropriazione delle terre e gli argomenti della violenza e della morte sono rielaborati come segno della costante presenza di una forza malefica che si serve dell’uomo stesso per deturpare il giardino del Creatore. Non c’è niente di tranquillizzante in questa Egloga. Chi riesce a sorridere o a ridere nel duetto del “Giardino”, s’imbatte prima o poi nella desolazione diffusa della “Lamentazione”, dove, con un colpo da vero maestro, Macchia piega l’antica figura retorica dell’adýnaton alla descrizione di un impossibile fattosi oramai tragica realtà quotidiana: vedi i flutti del mare stesi ad asciugare di una celebre poesia di Auden o le galline con le ali di avvoltoio presunte a una tragica evoluzione genetica. Altrove la recitazione si converte in un dettato violento, irrequieto, ricercatamente molesto. Le figure dell’Ingegnere e del Ministro, ossia del “ministrello”, «in giacchetta e cravatta», gelidi pianificatori di una distruzione portata ai limiti della gratuità, sono a dir poco inquietanti: l’imprecazione conclusiva contro la Madonna, definita “serva della gleba”, è il logico acme delle loro invettive avverso la bellezza della natura e della poesia. Nel complesso i personaggi si muovono, chi scalciando chi fomentando, in una dimensione “postumanistica” entro la quale Macchia inscrive la stessa questione del gender. Siamo ai limiti del politically correct, ma l’accostamento delle sigle OGM e LGBT, sebbene cruda (l’egloga sarà da intendersi “proibita” anche per questo!), invita, invece che alla ricusazione aprioristica, a una doverosa riflessione. In tutto questo la misteriosa apparizione della Madonna fa da contraltare al relativismo sociale e culturale dominante. 
Alla fine L'egloga proibita si palesa per una vera e propria crociata di ragazzi. Bisogna stare a due metri da questi strabilianti attori e assistere alle loro invettive per comprendere sul serio come ci si può sentire schiacciati nell’a parte di un consesso di sciocchi e idioti o come si soccombe al disagio dell’indice puntato di otto vociferatrici a segno delle vergognose indifferenze di noi adulti. A dire il vero, il pubblico è soggiogato di frequente dallo stesso linguaggio alto dei dialoghi, talvolta aulico ai limiti dell’azzardo. Ma ci pare una strategia accuratamente pianificata in antitesi al banale tronfio e trionfante di questa nostra più orribile décadence. Nel quadro del “Pipistrello” il livello di stratificazione dei significati e dei riferimenti letterari è così denso da spazzare finanche qualsiasi residua attesa di una tradizionale recita scolastica di fine anno, come del resto si premurano di annunciare le note di sala. Lo spettatore, insomma, è sollecitato a un incessante impegno di elaborazione. Con ciò, le trovate drammaturgiche dell’autore hanno la capacità di tenerlo sempre desto. Si tratta di meccanismi tanto semplici quanto potenti ed efficaci: indimenticabili le violentissime apostrofi delle vociferatrici, modulate sulle tradizionali coniugazioni verbali; memorabili le ragazzine che nel quadro della “Lezione” agiscono da lavagna parlante e scandiscono due versi (forse il passaggio chiave dell’intera pièce) dalla quarta Egloga di Virgilio: «sceleris vestigia nostri / inrita perpetua solvent formidine terras».
Ci si domanderà se i nostri piccoli interpreti fossero essi stessi veramente partecipi e consapevoli dei significai riposti nell'Egloga proibita. Ma a quell’età non si recita con tale espressività e con tale capacità di modulare il volto e la voce se non si è davvero padroni del testo. Come tutto ciò sia stato possibile è un miracolo del cui segreto soltanto Macchia è a conoscenza.